La nostra è un’era globalizzata e globalizzante in cui il
consumismo e lo spreco imperversano. Tutto ci sfugge velocemente
dalle mani. Ci viene imposto di cambiare continuamente, di essere al
passo con i tempi, di aggiornarci alle diverse situazioni. Mai una
società ha prodotto tanti rifiuti come la nostra, le discariche, lo
smaltimento sono un dramma del presente.
Simonetta Ferrante riutilizza gli scarti dei suoi lavori per creare
nuove opere. Scarti che diventano parti digerite del già fatto, del
già eseguito. Memoria della sua stessa ricerca. Nei suoi lavori è la
leggerezza, la naturalezza dell’impermanenza dell’esperienza delle
cose.
In occasione della mostra saranno esposte oltre ai collages su tela
anche delle lunghe strisce proprio come quelle che si trovano
all’interno dei templi giapponesi. Sopra di esse sono dei segni
calligrafici, che nulla hanno a che fare con la scrittura orientale,
e parti delle poesie di Livia Chandra Candiani, sua amica spirituale
nel percorso meditativo scelto da Simonetta..
Poesie tratte dalla sua recente raccolta “Bevendo il tè con i morti”,
che presenta un’immagine profonda e serena della naturale
conclusione dell’esistenza.
Nulla di macabro, di terribile, di angosciante.
«Azzurra
è la notte
dopo il buio del corpo
per la morta
che sognava l’aperto» [1].
Le strisce poetiche di Simonetta sono su materiali
precari. Nessuna tensione all’eternità. Molte sono fotocopie. Vi è
la consapevolezza della cancellazione, della sparizione. In Cina per
i morti si bruciano delle carte. In Giappone si appendono agli
alberi piccoli fogli con i desideri, quasi a sottolinearne
l’inconsistenza, la precarietà.
In tutto questo, come già detto, è la memoria del suo percorso,
della sua trentennale professione di grafica, della sua breve, ma
intensa esperienza didattica. Ma soprattutto è qui la memoria della
sua formazione inglese, alla fine degli anni Cinquanta, alla Central
School for Arts and Crafts, ai corsi di pittura e disegno con Cecil
Collins, dove impara a utilizzare i materiali con estrema libertà
mentale. Non vi è l’aspirazione alla perfezione. Importante per lei,
diplomata in pianoforte al Conservatorio, è anche la musica, il
suono e il ritmo, ai quali, spesso, si rifà per la stesura dei suoi
segni.
La scrittura è un esercizio fisico, è un modo per lasciarsi andare,
per muoversi liberamente nello spazio. Non vi è una mira, una meta
precisa.
A Simonetta piace l’imprevisto. Le cose devono uscire da sole, senza
forzatura alcuna. Aggredire non serve, rincorrere spasmodicamente
neppure.
La sua è una semina paziente a cui guarda, appollaiata su un ramo in
attesa dei frutti, conscia della caducità e della transitorietà
dell’esistenza.
Mi piace, ancora una volta, citare Livia Candiani per chiudere
queste mie brevi note:
«Celebrano l’abbondanza
le ciliegie sui rami
le ciliegie putrefatte tornate
a bussare al suolo» [2].